di Massimiliano Scarabeo

La prima volta, per chi vede la foiba Plutone, ha un effetto impressionante: il buco che si apre in fondo alla dolina, gettarvi una pietra e sentirla cadere giù… giù… giù… Passano infiniti secondi mentre la senti rimbalzare sulle pareti di roccia, ne senti l’eco, poi sbatte, si rompe, ed allora le pietre diventano tante e cadono, cadono ancora. E poi torna il silenzio.
Così capisci quanto sia profonda e come finirono
quelli che furono precipitati là dentro. Ci si arriva da Basovizza, qualche chilometro forse, passando davanti al vecchio cimitero di Gropada ed inoltrandosi poi in una stradina che bisogna conoscere per arrivarci.
Si scende un sentierino tra l’erba, camminando attraverso i faggi, le acacie e il sommaco fino a giungere giù nell’incavo della dolina. È qui che si vede aprirsi la buca, nera, profonda, sul cui orlo si avvinghiano gli ultimi alberelli.
“Quella volta il bosco non c’era, era tutto prato e cespugli bassi – raccontava Alfredo Mari, uno di quegli uomini con lo sguardo bonario e senza tempo che seminavano italianità nella Trieste degli anni ’70 – qui fu gettato mio padre, capo delle guardie carcerarie di Trieste”.
L’abisso Plutone fu esplorato dalle autorità del Governo Militare Alleato nel 1947. Una volta riesumate le salme, vennero chiamati ai bordi della foiba i parenti di quelli che si riteneva potessero essere tra le vittime perché ne effettuassero il riconoscimento.
“Andammo mia madre ed io, che ero il più vecchio
dei miei fratelli – disse Alfredo – accompagnati da un ufficiale inglese. Sul prato erano stesi cadaveri irriconoscibili, divorati dalla putrefazione, alcuni composti, altri no, e poi teschi, ossa… Vedemmo la divisa a brandelli e pensammo che fosse lui.
Mamma guardò dietro il risvolto del collo, la sartoria era quella di Civitavecchia, dove io sono nato e dove lui prestava servizio prima di venire a Trieste. Sì, era lui, Ernesto Mari, mio papà, maresciallo capo delle guardie carcerarie”.
Dal processo che svolsero le autorità del GMA si appresero tutti i contorni della vicenda ed emersero in particolare le figure inquietanti di alcuni comunisti italiani vendutisi ai titini.
Uno era l’agente delle guardie Giuseppe Rovello che, presentatosi al Coroneo con mitra e berretto fregiato della stella rossa ed autoproclamatosi comandante del carcere, fece arrestare il maresciallo Mari; inventò quindi accuse infamanti contro di lui, che furono tutte demolite dalle testimonianze sia degli agenti, sia dei detenuti e dei loro familiari, i quali sottolinearono anzi l’umanità e la rettitudine del comandante.
L’altro, ben più importante, fu Nerino Gobbo, conosciuto come il comandante “Gino”, che ricopriva l’incarico di commissario del popolo nella Trieste occupata dagli slavi tra il maggio e il giugno ’45, ed imperava a Villa Segré, luogo di tortura delle milizie titine.
Nella denuncia presentata nel 1946 alle autorità alleate, Silvana Spagnol, membro del Comitato di Liberazione Nazionale nel capoluogo giuliano, attribuiva proprio a Gobbo anche la scomparsa della professoressa di lettere del liceo Petrarca, Elena Pezzoli, membro della resistenza, ma anticomunista e italiana: “Il 20 maggio 1945, Elena Pezzoli era tradotta in macchina da agenti in borghese a Villa Segré, sede del commissariato del secondo settore dipendente dalla Difesa popolare (…). La Pezzoli fu torturata nella notte del 21 maggio e si sono uditi i lamenti e i rumori di cinghia (…). Il giorno 9 giugno la Pezzoli era scomparsa e con lei il comandante Gino, Nerino Gobbo”.
Nella sentenza del 17 gennaio 1948 della Corte
d’Assise di Trieste, i giudici accertarono che “la banda del Gobbo il 23 maggio 1945 aveva caricato su un camion 18 arrestati e li aveva infoibati nell’abisso Plutone”.
Scrissero anche: “la squadra si era trasferita a Villa
Segré assumendo il nome di squadra volante (…), e passava alle dirette dipendenze del commissario del popolo, Gino, di nome Nerino Gobbo. (…) Come risultò dalle deposizioni dei testi tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda e persino a mettere la testa nel secchio delle feci”.
Gobbo fu condannato in contumacia a 26 anni di reclusione ma continuò a vivere beato dall’altra parte del confine. Anzi, divenne pure presidente della “Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume”, l’organo del regime comunista dedicato alla “rappresentanza” della minoranza italiana in Jugoslavia, e poi addirittura deputato al Parlamento di Lubiana.
E, cosa infame, ricevette dall’INPS per il “servizio prestato in Italia” la pensione fino alla sua morte: 532.500 lire per tredici mensilità con 30 milioni circa di arretrati.
Lo scandalo degli infoibatori che ricevevano la pensione dall’INPS è un’altra delle vergogne sempre taciute di quest’Italia.
Eppure pian piano la verità si fa strada e avvengono fatti che LA STORIA DEL MARESCIALLO ERNESTO MARI E LA SUA ORRENDA FINE NELL’ABISSO PLUTONE
La prima volta, per chi vede la foiba Plutone, ha un effetto impressionante: il buco che si apre in fondo alla dolina, gettarvi una pietra e sentirla cadere giù… giù… giù… Passano infiniti secondi mentre la senti rimbalzare sulle pareti di roccia, ne senti l’eco, poi sbatte, si rompe, ed allora le pietre diventano tante e cadono, cadono ancora. E poi torna il silenzio.
Così capisci quanto sia profonda e come finirono
quelli che furono precipitati là dentro. Ci si arriva da Basovizza, qualche chilometro forse, passando davanti al vecchio cimitero di Gropada ed inoltrandosi poi in una stradina che bisogna conoscere per arrivarci.
Si scende un sentierino tra l’erba, camminando attraverso i faggi, le acacie e il sommaco fino a giungere giù nell’incavo della dolina. È qui che si vede aprirsi la buca, nera, profonda, sul cui orlo si avvinghiano gli ultimi alberelli.
“Quella volta il bosco non c’era, era tutto prato e cespugli bassi – raccontava Alfredo Mari, uno di quegli uomini con lo sguardo bonario e senza tempo che seminavano italianità nella Trieste degli anni ’70 – qui fu gettato mio padre, capo delle guardie carcerarie di Trieste”.
L’abisso Plutone fu esplorato dalle autorità del Governo Militare Alleato nel 1947. Una volta riesumate le salme, vennero chiamati ai bordi della foiba i parenti di quelli che si riteneva potessero essere tra le vittime perché ne effettuassero il riconoscimento.
“Andammo mia madre ed io, che ero il più vecchio
dei miei fratelli – disse Alfredo – accompagnati da un ufficiale inglese. Sul prato erano stesi cadaveri irriconoscibili, divorati dalla putrefazione, alcuni composti, altri no, e poi teschi, ossa… Vedemmo la divisa a brandelli e pensammo che fosse lui.
Mamma guardò dietro il risvolto del collo, la sartoria era quella di Civitavecchia, dove io sono nato e dove lui prestava servizio prima di venire a Trieste. Sì, era lui, Ernesto Mari, mio papà, maresciallo capo delle guardie carcerarie”.
Dal processo che svolsero le autorità del GMA si appresero tutti i contorni della vicenda ed emersero in particolare le figure inquietanti di alcuni comunisti italiani vendutisi ai titini.
Uno era l’agente delle guardie Giuseppe Rovello che, presentatosi al Coroneo con mitra e berretto fregiato della stella rossa ed autoproclamatosi comandante del carcere, fece arrestare il maresciallo Mari; inventò quindi accuse infamanti contro di lui, che furono tutte demolite dalle testimonianze sia degli agenti, sia dei detenuti e dei loro familiari, i quali sottolinearono anzi l’umanità e la rettitudine del comandante.
L’altro, ben più importante, fu Nerino Gobbo, conosciuto come il comandante “Gino”, che ricopriva l’incarico di commissario del popolo nella Trieste occupata dagli slavi tra il maggio e il giugno ’45, ed imperava a Villa Segré, luogo di tortura delle milizie titine.
Nella denuncia presentata nel 1946 alle autorità alleate, Silvana Spagnol, membro del Comitato di Liberazione Nazionale nel capoluogo giuliano, attribuiva proprio a Gobbo anche la scomparsa della professoressa di lettere del liceo Petrarca, Elena Pezzoli, membro della resistenza, ma anticomunista e italiana: “Il 20 maggio 1945, Elena Pezzoli era tradotta in macchina da agenti in borghese a Villa Segré, sede del commissariato del secondo settore dipendente dalla Difesa popolare (…). La Pezzoli fu torturata nella notte del 21 maggio e si sono uditi i lamenti e i rumori di cinghia (…). Il giorno 9 giugno la Pezzoli era scomparsa e con lei il comandante Gino, Nerino Gobbo”.
Nella sentenza del 17 gennaio 1948 della Corte
d’Assise di Trieste, i giudici accertarono che “la banda del Gobbo il 23 maggio 1945 aveva caricato su un camion 18 arrestati e li aveva infoibati nell’abisso Plutone”.
Scrissero anche: “la squadra si era trasferita a Villa
Segré assumendo il nome di squadra volante (…), e passava alle dirette dipendenze del commissario del popolo, Gino, di nome Nerino Gobbo. (…) Come risultò dalle deposizioni dei testi tutti i detenuti venivano bastonati e seviziati, taluni costretti a bastonarsi a vicenda e persino a mettere la testa nel secchio delle feci”.
Gobbo fu condannato in contumacia a 26 anni di reclusione ma continuò a vivere beato dall’altra parte del confine. Anzi, divenne pure presidente della “Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume”, l’organo del regime comunista dedicato alla “rappresentanza” della minoranza italiana in Jugoslavia, e poi addirittura deputato al Parlamento di Lubiana.
E, cosa infame, ricevette dall’INPS per il “servizio prestato in Italia” la pensione fino alla sua morte: 532.500 lire per tredici mensilità con 30 milioni circa di arretrati.
Lo scandalo degli infoibatori che ricevevano la pensione dall’INPS è un’altra delle vergogne sempre taciute di quest’Italia.
Eppure pian piano la verità si fa strada e avvengono fatti che ristabiliscono giustizia e verità.
Nel gennaio 2018 il Carcere di Trieste è stato intitolato ad Ernesto Mari.
Certo, è tardi, ma ha ricevuto finalmente l’onore che meritava. giustizia e verità.
Nel gennaio 2018 il Carcere di Trieste è stato intitolato ad Ernesto Mari.
Certo, è tardi, ma ha ricevuto finalmente l’onore che meritava.
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