Un’Italia più verde, più vivibile, innovativa e inclusiva. Così potrà diventare la Penisola da qui al 2030 se saprà utilizzare al meglio le opportunità e le risorse che l’Europa ha messo a disposizione dell’Italia con il Next Generation EU (NGEU).

Di ciò ne è convinta Legambiente che, nel giorno in cui viene audita in Parlamento in Commissione Ambiente della Camera dei deputati, per dare una “scossa” alla recente discussione poco centrata sui contenuti presenta il suo Recovery Plan, frutto di un lungo dialogo durato 5 mesi con istituzioni, imprese, associazioni, sindacati, e di una scrittura collettiva e condivisa.

Il documento in questione ci proietta verso l’Italia del 2030 e indica, per le 6 missioni indicate dall’Europa, 23 priorità di intervento63 progetti territoriali da realizzare – tra rinnovabili, mobilità sostenibile, economia circolare, adattamento climatico e riduzione del rischio idrogeologico, ciclo delle acque, bonifiche dei siti inquinati, innovazione produttiva, rigenerazione urbana, superamento del digital divide, infrastrutture verdi, turismo, natura e cultura – insieme a 5 riforme trasversali necessarie per accelerare la transizione ecologica del Paese per renderlo più moderno e sostenibile, dando il via ad una nuova stagione della partecipazione e della condivisione territoriale. 

Il faro che ha guidato Legambiente nella redazione del suo Recovery Plan è la lotta alla crisi climatica che riguarda trasversalmente le 23 priorità nazionali di intervento. Nel documento, inoltre, l’associazione ambientalista descrive, regione per regione, quelle che a suo avviso sono le opere da realizzare e quelle da evitare, indicando in maniera chiara come spendere i quasi 69 miliardi di euro destinati per la “Rivoluzione verde e transizione ecologica” e i 32 miliardi destinati alle “Infrastrutture per la mobilità sostenibile”.

Tra i progetti da finanziare, Legambiente indica, ad esempio, oltre all’Alta Velocità nel centro Sud, le reti ferroviarie di Sicilia, Calabria, Basilicata, Molise, Campania, Sardegna, Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Veneto e Lombardia; l’elettrificazione dei porti; l’idrovia Padova Venezia; la chiusura dell’anello ferroviario di Roma; gli interventi per ridurre gli impatti ambientali nelle acciaierie (l’ex Ilva di Taranto e l’impianto di Cogne ad Aosta), la riconversione del distretto dell’Oil&Gas di Ravenna (puntando sulla nuova filiera dell’eolico e del fotovoltaico offshore e della dismissione delle piattaforme non più operative), la riconversione delle centrali a carbone ancora attive e i progetti sull’agroecologia in Puglia, Umbria, Emilia Romagna e Trentino. Senza dimenticare la realizzazione di digestori anaerobici per il trattamento della frazione organica differenziata, con produzione di biometano e compost di qualità, in ogni provincia in Sicilia, Calabria, Campania, Basilicata, Abruzzo, Marche, e Liguria e quelli per trattare gli scarti agricoli, i reflui zootecnici e i fanghi di depurazione.

E poi le delocalizzazioni degli edifici a rischio idrogeologico in Calabria, Sardegna e Umbria; la decarbonizzazione delle isole minori in Sicilia; la digitalizzazione nelle aree interne e una nuova fruibilità turistica delle aree montane come nelle Marche, dove an­drebbero finanziate le connessioni ciclopedonali, che mancano, tra Appennino e costa adriatica; la riqualificazione dell’edilizia popolare (messa in sicurezza ed efficientamento energetico) e degli istituti scolastici in Campania; il progetto integrato sulla “città adriatica” nelle Marche, la rigenerazione socio-economica delle quattro regioni del centro Italia colpite dal sisma.

Tra i progetti da evitare e che l’associazione ambientalista boccia c’è, ad esempio, l’impianto di cattura e stoccaggio di CO2 proposto da Eni a Ravenna, il ponte sullo stretto di Messina, quelli legati alla produzione di idrogeno da fonti fossili, i nuovi invasi, gli impianti TMB di trattamento meccanico biologico dei rifiuti, gli impianti di innevamento artificiale e di risalita al di sotto dei 1.800 m.s.l.m., gli incentivi legati all’acquisto dei veicoli a combustione interna.

“Negli ultimi mesi – spiega Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – il percorso di definizione del PNRR da parte del governo italiano è stato a dir poco confuso e, soprattutto, per nulla partecipato. Per dirla con una battuta auspicavamo un “PNRR partecipato” e ci siamo trovati un “PNRR delle partecipate”, come poi è emerso dalle bozze circolanti con i progetti proposti da Eni. Il nostro auspicio è che, una volta superata la crisi governativa in corso, l’Esecutivo abbia il coraggio di cambiare registro e passo pensando ad un Recovery Plan diverso, modificandolo e mettendo al centro la crisi climatica, anche prendendo spunto dal nostro documento.

Questi interventi devono essere accompagnati da un profondo pacchetto di riforme per accelerare la transizione ecologica: servono più semplificazioni, controlli pubblici migliori, un’organizzazione burocratica aggiornata professionalmente e all’altezza della sfida, una maggiore partecipazione con una nuova legge sul dibattito pubblico che riguardi tutte le opere per la transizione verde, per coinvolgere i territori e ridurre le contestazioni locali. Solo così – conclude Ciafani – si darà concretezza al nome scelto per il PNRR: Next Gene­ration Italia, con un forte richiamo agli impegni che si assumono per le prossime generazioni. Ma perché alle intenzioni dichiarate corrispondano i fatti è necessaria quella volontà politica che non abbiamo visto finora. È il momento di mostrarla”.

Critiche al PNRR predisposto dal Governo – Per Legambiente gli anni fino al 2030 saranno cruciali per fronteggiare l’emergen­za climatica: per questo non deve essere sprecata la grande opportunità del PNRR per diventare un paese moderno, per liberarsi da zavorre, emergenze ambientali croniche, progetti e inadem­pienze che provocano procedure d’infrazione da parte dell’Europa, e soprattutto per superare lo shock causato dalla pandemia.

Ad oggi purtroppo il PNRR predisposto dal Governo, non ha ancora imboccato con determinazione questa strada. Per l’associazione ambientalista si tratta di un piano privo di una bussola, dove la grande assente tra le priorità trasversali è proprio la crisi climatica (che andrebbe affiancata a parità di genere, sud e giovani) e dove manca la messa a punto di obiettivi, strumenti e interventi dettagliati, coerenti e integrati tra loro, tale da delineare la visione del Green Deal Italiano e le tappe della transizione per tradurlo in realtà.

Nel Piano governativo arrivato in Parlamento il 15 gennaio 2021, non compare più infatti l’allegato con le schede progetto circolato il 29 dicembre scorso e questo non rende possibile un’analisi approfondita e puntuale.

Ma una descrizione più generale di quello che si vuole finanziare c’è ed è sufficiente per valutare gli errori del Piano. Solo per fare un esempio nel PNRR proposto dal Governo alle opere ferroviarie per la connessione veloce vanno quasi 27 miliardi di euro (la fa da padro­na l’Alta velocità e la velocizzazione della rete con poco meno di 15 miliardi di euro) e 18,5 all’efficientamento termico e sismico dell’edilizia residenziale privata e pubblica.

Sono di gran lunga più contenute le risorse destinate a produzione e distribuzione di energia da fonti rinnovabili (9); al trasporto locale e alle ciclovie (7,5) a cui andrebbero destinate più risorse, all’economia circolare (4,5 miliardi di euro), che pure vede l’Italia come paese leader in Europa, il rischio idrogeologico (3,6), che interes­sa il 91,1% dei Comuni, l’agricoltura (2,5), motore indispensabile del “made in Italy” agroalimentare.

Riforme necessarie –  La storia dell’Italia ricorda che non bastano i finanziamenti europei per realizzare le opere pubbliche necessarie, ma servono anche delle riforme in parallelo. È necessario organizzarsi velocemente e in modo diverso, per garantire qualità dei progetti, velocità della spesa e certezza del rispetto delle regole.

Per questo l’associazione ambientalista indica nella sua proposta di PNRR le numerose riforme necessarie per ciascuna delle 23 priorità di intervento individuate, a cui se ne affiancano altre 5 trasversali, da mettere in campo per accelerare la transizione ecologica:

1) Velocizzare l’iter autorizzativo con le semplificazioni all’iter di approvazione dei progetti, 2) Combattere la concorrenza sleale con il miglioramento qualitativo dei controlli ambientali attraverso il potenziamento del Sistema Nazionale di Protezione dell’Ambiente, 3) Istituire una governance efficace con una Struttura di missione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri sul modello di quanto già fatto, con risultati incoraggianti, sul rischio idrogeologico e sull’edilizia scolastica; 4) Aumentare le competenze della pubblica amministrazione con un vasto programma di formazione e aggiornamento professionale; 5) Ridurre i conflitti territoriali con una nuova legge sul dibattito pubblico per la condivisione e la partecipazione di cittadini e istituzioni locali che potenzi quanto già previsto da Codice degli appalti e Valutazione di impatto ambientale.

Il Recovery plan del Molise – “Quando nel mese di dicembre presentammo il nostro dossier nazionale eravamo ben consci della necessità che la Regione Molise proponesse degli interventi innovativi in grado di dotare la nostra terra di quelle infrastrutture digitali, materiali e immateriali necessarie a collegarla al contesto nazionale e rendere sostenibile lo sviluppo socioeconomico.

Da allora – dichiara Andrea De Marco, direttore regionale di Legambiente Molise – non è stato possibile intavolare con la Regione nessun dialogo che avesse come tema la programmazione del recovery plan. Invece abbiamo potuto solamente leggere con un certo rammarico quanto proposto dalla Regione, con schede progettuali scritte in maniera approssimativa (quando è andata bene, sic!) o contenenti progetti che andavano completamente nella direzione opposta rispetto agli obiettivi del “Piano Nazionale di Resilienza e Rilancio”.

Tale approccio approssimativo – conclude De Marco – si affianca alla mancanza di ascolto del partenariato sociale che in queste settimane ha più volte chiesto alla Regione di essere coinvolto nelle scelte programmatiche, avendo avuto modo di valutare la presenza di grossolani errori all’interno della strategia presentata dalla Regione Molise.”

Cosa serve al Molise – È opportuno investire su impianti per il riciclo delle plastiche non altrimenti riciclabili e degli scarti agro-zootecnici, creare centri del riuso comunali per sostenere l’occupazione delle categorie svantaggiate e la più ampia inclusione sociale dei soggetti “deboli”.

Il Molise ha bisogno di collegamenti ferroviari in grado di proiettare le sue aree interne verso l’alta velocità italiana, in particolare alla linea AV Napoli-Bari, da realizzare tramite l’ammodernamento della tratta ferroviaria Boscoredole-Benevento ed al collegamento rapido alla linea adriatica per mezzo dell’adeguamento della tratta Campobasso-Termoli.

Il Molise ha bisogno che sia dato seguito in un quadro coordinato di tempistiche degli interventi, standard di qualità e controlli efficaci alle misure approvate a valere sull’Accordo di Programma per la realizzazione di interventi di miglioramento del Servizio Idrico Integrato del maggio 2020, e di una governance unitaria, che metta tra l’altro a sistema il tema dei contratti di fiume e la gestione della risorsa idrica per gli usi irrigui negli accordi interregionali e nella futura programmazione.

Serve innovare il sistema regionale di formazione indirizzandolo verso le professioni del futuro sfruttando le risorse del PNRR per la creazione di un Regional Eco-innovation hub tra enti regionali ed extraregionali operanti nei settori dell’istruzio­ne, della formazione e della ricerca. Una infrastruttura snella per la formazione e la ricerca avanzata che intervenga a sostegno dei dottorati di ricerca innovativi e start up, e che concorra al finanziamento di soggiorni di studio e di ricerca all’estero.

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