Riportiamo integralmente il post scritto su Facebook da Fabio Sabatini, professore di Economia alla Sapienza di Roma.

Vi invitiamo a leggerlo con attenzione

“È il concetto stesso di normalità che è destinato a cambiare, per lungo tempo. È un cambiamento che dovremo interiorizzare in fretta, per impedire ai sistemi sanitari e all’economia di collassare, moltiplicando i danni dell’epidemia.

Un team di epidemiologi dell’Imperial College guidato da Neil Ferguson ha simulato l’evoluzione dell’epidemia nel Regno Unito in diversi scenari, ognuno caratterizzato da diverse misure di contrasto (https://bit.ly/3943b1c).

Gli autori stimano che strategie “leggere” (come quella inizialmente ipotizzata da Boris Johnson, basata sull’isolamento dei casi sospetti, la quarantena dei loro parenti e l’isolamento sociale di anziani, immunodepressi e pazienti cronici) potrebbero dimezzare i decessi e ridurre di 2/3 il flusso di malati nei reparti di terapia intensiva.

Tuttavia, nel solo Regno Unito morirebbero comunque centinaia di migliaia di persone e il sistema sanitario collasserebbe lo stesso.

Secondo la simulazione, si può sperare di arrestare l’epidemia solo mediante una lunga quarantena dell’intera popolazione combinata con la chiusura delle scuole e delle università e il contemporaneo isolamento dei casi sospetti e delle loro famiglie (come nello Hubei).

La figura 1 (vedere tab. in basso) mostra la pressione dell’epidemia sul sistema sanitario nei diversi scenari di policy.

Il problema è che tali misure dovrebbero restare in vigore finché non sarà disponibile un vaccino, cioè per almeno 18 mesi, secondo gli autori. Sempre ammesso che un vaccino sia possibile.

La simulazione prevede che ogni allentamento delle restrizioni prima che l’epidemia sia completamente debellata consentirà al virus di diffondersi di nuovo. Dovremo ricominciare da capo.

È chiaro che i costi della strategia “forte” sono troppo alti. Gli autori suggeriscono allora di applicarla non sempre ma “solo” ogni volta che i reparti di terapia intensiva vanno sotto pressione, e rilassarla quando la pressione si allenta.

La figura 2 (vedere tab. in basso) è una rappresentazione grafica di tale approccio (i rettangoli blu sono le fasi di lockdown). Anche in tale scenario, il lockdown dovrebbe durare 2/3 del tempo per essere efficace, per esempio due mesi sì e uno no, per la durata necessaria a ottenere un vaccino (sempre ammesso che sia possibile) e nella speranza di trovare, nel frattempo, una terapia farmacologica efficace che risolva una parte del problema. Di nuovo, 18 mesi.

Anche in questo modo però i costi saranno altissimi e non è detto che potremo permetterceli. Non senza ripensare le interazioni sociali, cambiare radicalmente stile di vita e, nei limiti del possibile, l’organizzazione dei processi produttivi.

È evidente che la vita non tornerà presto alla “normalità” cui siamo abituati.

Ora, il lockdown può essere supportato da strategie complementari, come il tracciamento “aggressivo” dei potenziali contagiati effettuato oggi in Corea del Sud e a Taiwan (che non è preso in considerazione nelle simulazioni degli autori).

Il tracciamento digitale dei potenziali contagiati e della loro rete di contatti ci offre una grande opportunità, a patto che sia volontario, duri solo il tempo necessario a sconfiggere l’epidemia, e vi sia la massima chiarezza e trasparenza sull’uso dei dati personali.

Gideon Lichfield (chief editor della MIT Technology Review) avverte dei pericoli di un tracciamento prolungato nel tempo in cui le autorità condividono i dati del sistema di “sorveglianza” con altri soggetti pubblici e privati (il pezzo è qui: https://bit.ly/38ZDz5v).

Per esempio, Lichfield immagina un mondo in cui per salire su un aereo dovremo sottoscrivere un servizio che traccia i nostri spostamenti, in modo che la compagnia aerea riceva un alert se ci siamo avvicinati troppo a persone infette o focolai d’infezione. Un sistema simile potrebbe essere usato per filtrare l’accesso anche ad altri luoghi pubblici. Oggi i nightclub chiedono di dimostrare la maggiore età, domani potrebbero chiedere una prova di immunizzazione, e finiremo con l’adattarci anche a tali misure come ci siamo abituati ai controlli antiterrorismo in aeroporto.

Da qui a immaginare un mondo in cui le persone con accesso limitato al sistema sanitario e/o che vivono in aree a maggiore rischio di contagio (probabilmente le più povere) sono sistematicamente discriminate il passo è breve.

In ogni caso, sembra chiaro che il costo più duro dell’epidemia lo pagheranno i più deboli. I lavoratori precari potrebbero diventare ancora più precari. Gli immigrati, i rifugiati e gli ex detenuti troverebbero un nuovo ostacolo all’integrazione in una società sempre più stratificata e segregata. I criteri di discriminazione potrebbero allargarsi, per esempio a chi percepisce un reddito inferiore a una certa soglia o vive in certe aree di un paese.

Quello immaginato da Lichfield è solo uno dei tanti scenari possibili (uno dei peggiori).

E può sempre darsi che a migliorare la situazione intervengano fattori esogeni (il tempo, una mutazione del virus) o endogeni (una cura, un vaccino).

Ma è chiaro che la normalità in cui siamo cresciuti non tornerà tanto presto e che dobbiamo affrettarci a interiorizzare tale cambiamento radicale. E a contrastare il virus con strategie quanto meno più “aggressive”.

Nel farlo, dovremo tenere conto anche dell’effetto dell’epidemia sulle disuguaglianze”.

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