A lungo abbiamo riflettuto se, ed eventualmente come, rispondere all’articolo che il 28 Marzo 2019 è apparso sul quotidiano locale “Primo piano Molise” pronunciandosi in merito al nostro operato, all’operato della Caritas diocesana di Isernia-Venafro. Rispondere con il nostro silenzio e lasciar parlare le nostre azioni o affiancare a queste finalmente la nostra voce? La soluzione a questo nostro dubbio si è rivelata, in realtà, quasi “indotta”.

Non ci è parso soltanto frutto di un fortuito “Caso” che il sopracitato articolo comparisse proprio all’indomani del 41° Convegno Nazionale delle Caritas diocesane, convegno al quale la nostra “neo-nata” Equipe diocesana ha partecipato e dal quale sicuramente è uscita fortemente arricchita non solo di buoni propositi, ma anche e soprattutto di tanti insegnamenti ed esempi di vita. Non abbiamo potuto fare a meno di leggere una esauriente risposta all’episodio che purtroppo ci vede protagonisti in questi giorni proprio nelle parole con cui Marco Tarquinio, direttore de “L’Avvenire”, ha salutato gli Operatori delle Caritas di tutta Italia: “Dovete continuare a comunicare il bene che fate.

In questo tempo delle parole sbagliate, in cui la bontà e la solidarietà sono criminalizzati, non deve venir meno la vostra opera. La colpa di molti media oggi è quella di riportare le parole di odio pedissequamente. Comunicate il bene che fate e date a noi giornalisti la possibilità di raccontarlo”.

Questo articolo non vuole essere un elogio al nostro operato o un tentativo per discolparci, anzi, vuole essere innanzitutto una semplice, e forse amara, riflessione sulla società di oggi, una società in cui, soprattutto attraverso i social, tutti trovano uno spazio per far sentire la propria voce, una voce che però il più delle volte si tramuta in urla, in grida sempre più spesso dettate da rabbia, scontento o semplicemente da desiderio di critica, una critica che di per sé è costruttiva, ma alla quale oggi purtroppo seguono soluzioni per lo più “semplificate e impraticabili”.

In questo periodo storico dobbiamo purtroppo constatare che ha preso ormai piede un particolare modo di essere e di fare Comunicazione che ha sempre meno a che fare con la Carità, una Comunicazione che non si pone come strumento del Vero in quanto non testimonia ma veicola i fatti, le parole, le azioni. E allora dove va a finire la Verità? O meglio, che cos’è questa Verità quando tutti possono dire tutto senza che nessuno si prenda l’incomodo di indagarla?

Con questo non vogliamo dire che in questi giorni ci siamo trovati seduti impropriamente sul “banco degli imputati”, (metafora creata proprio dal direttore della Caritas italiana, don Francesco Soddu): se le nostre azioni sono parse agli occhi di altri non buone o comunque contrarie al bene comune, allora da qualche parte abbiamo sbagliato, il nostro “fare carità” non ha saputo generare i risultati che avremmo voluto.

Per capire dove, però, è bene porci un quesito imprescindibilmente alla base del nostro mandato: che cosa significa realmente fare Carità? Si esaurisce nel contribuire al pagamento delle bollette e dell’affitto o è anche altro? Oggi è ben evidente come il rischio di confondere il “fare carità” con un vuoto e deprecabile “assistenzialismo” sia molto alto, forse troppo. In questo periodo in cui la crisi dilaga, bisogna rendersi conto che si sente sempre più il peso di una povertà che non è soltanto economica, ma una povertà di valori, di sentimenti.

Nelle Caritas di tutta Italia oggi si affollano sempre più persone bisognose non tanto di denaro, quanto di Ascolto, di sostegno psicologico, di affetto, di Amore ed è questa la parte più bella del nostro mandato, del nostro operato, della nostra MISSIONE DI CARITÀ: un attenzione non esclusivamente all’aspetto economico, ma alla Persona con la sua dignità.

Il nostro agire sarebbe vano se si esaurisse soltanto in un “donare il materiale” senza che ad esso segui un messaggio nell’ottica evangelica. Ecco! È in questa funzione pedagogica della Caritas che noi sentiamo di aver fallito perché insieme all’aiuto economico da noi offerto alla signora in questione non siamo riusciti a generare e a educare alla “cultura del dono”. Fare Carità non significa dover essere sempre pronti a elargire somme di denaro a ogni richiesta (soprattutto quando queste arrivano a distanze di tempo minime l’una dall’altra).

Questo, oltre ad essere impossibile dato il numero consistente di persone che ogni giorno vengono a chiedere il nostro aiuto, sarebbe anche poco educativo. Dove andrebbe a finire il nostro dovere di Evangelizzare se il nostro aiuto fosse unilaterale e diretto sempre allo stesso destinatario? Sì, forse risolveremmo i problemi economici della persona, ma quanta altra povertà genereremmo intorno?

Sicuramente verremmo circondati da una povertà ben più grave e difficile da debellare, una povertà che si manifesta in un’aridità di valori e di giustizia in una società già fortemente minacciata. In quest’ottica, dunque, acquisiscono un nuovo sapore anche quei NO-educativi cui noi in alcuni casi siamo costretti, nostro malgrado, a fare appello.

Questi NO non devono essere letti come negazione di un aiuto (come purtroppo sono stati inquadrati), ma portatori di quella “cultura del dono”, di quel dono che è per tutti e non implica soltanto il materiale. Fare Carità, donare significa “Avere caro”, “Avere cura” dell’Altro nelle sue mille sfaccettature, nei suoi innumerevoli bisogni con tenerezza e misericordia.

Il nostro impegno, dunque, è quello di fare nostro l’invito di papa Francesco: “Dobbiamo fare le opere di misericordia, ma con misericordia! Con il cuore lì. Fare le opere di carità, non carità, con tenerezza e sempre con umiltà!”.

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